Emanuele Tesauro, Il cannocchiale aristotelico (1670)
Negli ultimi decenni del Cinquecento, la lirica, prima dominata in modo quasi esclusivo dall’imitazione petrarchesca, va evolvendo verso nuove soluzioni, sia tematiche sia stilistiche. La nuova poesia barocca cerca di emanciparsi dalla tradizione e di sperimentare vie nuove. Lo fa moltiplicando le tematiche affrontate, rinunciando alle costrizioni delle regole classiche e sperimentando nuove forme espressive, con un linguaggio poetico che pone al centro delle sue preoccupazioni stilistiche la struttura della metafora.
È il gesuita piemontese Emanuele Tesauro (1592-1675) a fornire gli strumenti teorici per compiere questa innovazione, con la sua opera principale, Il cannocchiale aristotelico (1670), vero trattato sulla metafora.
L’idea centrale della sua è che la parola è sempre generatrice di immagini plurime, proprio per la facoltà della metafora di visualizzare con una sola parola più di un oggetto: «in un vocabolo solo un pien teatro di meraviglie». Sulla ricchezza delle combinazioni potenzialmente fornite dalla metafora si costruisce la poesia barocca: di qui l’obiettivo della nuova poesia, la “meraviglia”, e di conseguenza il coinvolgimento del pubblico. Il poeta non intende più rivolgersi solo a un’élite di suoi simili, ma ricerca il dialogo con i contemporanei, aspira al successo, e per questo vuole stupire.