Ugo Betti, Corruzione a Palazzo di Giustizia (1938)
Nel periodo tra le due guerre l’esperienza drammaturgica più significativa fu quella di Pirandello, che contribuì a rinnovare profondamente il teatro italiano, nel tentativo di mettere a nudo quelle “maschere” che gli uomini si trovano a indossare nella loro esistenza.
In questo stesso momento storico, in qualche misura influenzato da Pirandello è il teatro d’introspezione psicologica di Ugo Betti (1892-1953), che studiò e visse a Parma – ove fu anche giocatore e dirigente della locale squadra di calcio – prima di trasferirsi a Roma negli anni Trenta. Cattolico e di professione magistrato, aveva composto il primo lavoro teatrale, La padrona, nel 1918, mentre era prigioniero in Germania con Carlo Emilio Gadda. Nelle sue opere migliori – da Frana allo scalo Nord (1936), sulla morte per lavoro di tre operai, a Corruzione al Palazzo di Giustizia del 1938, incentrato su un’indagine sulla disonestà di alcuni giudici – la vicenda si sviluppa sotto forma di inchiesta giudiziaria e processo, attraverso un serrato dibattito inquisitorio. In Betti, l’attenzione si concentra sul tema delle responsabilità individuali e collettive e l’esito è spesso una sentenza di rinvio a giudizio, in quanto emergono – con richiami kafkiani – tutti i limiti della giustizia umana, il difficile accertamento di una verità conclusiva, i misteri che avvolgono le singole esistenze e la crisi morale che coinvolge la società (ove il marcio penetra ovunque e nessun ambiente è al di sopra d’ogni sospetto), mentre i dialoghi rinviano costantemente ai grandi interrogativi esistenziali e alla ricerca di un senso motivante della vita. Si evidenziano inoltre, sulla scia di Pirandello, i contrasti tra la maschera e il volto di personaggi oppressi dalla debolezza della loro volontà o dalla rassegnazione al destino; e la coralità della rappresentazione raggiunge il culmine in Irene innocente (1946), in cui la protagonista diventa il capro espiatorio di un intero paese.