Dino Campana, Canti orfici (1914)
Si distingue sia dalla poesia crepuscolare sia dalla successiva corrente del Futurismo la voce poetica del toscano Dino Campana. Nato sull’Appennino tosco-emiliano, studia in diverse città prima di iscriversi alla facoltà di Chimica dell’Università di Bologna. Nel 1906 è ricoverato per la prima volta in un ospedale psichiatrico e dal 1907 compie viaggi avventurosi, dal Sudamerica alla Russia, praticando vari mestieri e sperimentando il carcere. In seguito frequenta l’ambiente letterario fiorentino e vive una burrascosa relazione con la scrittrice Sibilla Aleramo. Ricoverato nel manicomio di Castel Pulci, presso Firenze, vi trascorre gli ultimi quattordici anni di vita. Campana si collega alla tradizione del Simbolismo francese, riprendendo anche gli atteggiamenti esistenziali dei poeti maledetti, che si concretizzano in una vita irregolare, segnata dalla malattia mentale; con i poeti francesi Campana condivide anche la concezione della poesia come strumento di conoscenza della realtà profonda, generalmente inaccessibile al resto degli uomini. Nella sua unica opera, i Canti orfici del 1914, si riferisce già nel titolo all’Orfismo, cioè a una concezione poetica che attribuisce alla poesia un potere salvifico, suggerito dal mito greco di Orfeo che, grazie al proprio canto, aveva ottenuto dagli dèi il permesso di scendere nel regno dei morti per riportare alla luce Euridice. Il libro raccoglie componimenti poetici e prose accomunati dal tema del viaggio, inteso, di volta in volta, come fuga, ricerca e allegoria di una vita che non riesce a inserirsi in un contesto, ma ha bisogno di cercare nuove strade: nelle sue opere le figure del mito si intrecciano a quelle dell’emarginazione sociale (come girovaghi, emigranti o prostitute). Dal punto di vista stilistico, la scrittura di Campana è finalizzata alla costruzione di immagini, che accosta eliminando gran parte delle congiunzioni e dei nessi logici, e dalla ricerca di musicalità.