Giovanni Giudici, La vita in versi (1965) e le altre opere

L’attività del poeta lombardo Giovanni Giudici (1924-2011) si lega ai moduli del Crepuscolarismo soprattutto attraverso la lezione dei poeti liguri, da Camillo Sbarbaro a Eugenio Montale.

Alla sua formazione – orientata verso un cristianesimo aperto e problematico, attento alle istanze sociali – fa riferimento la raccolta L’educazione cattolica del 1963, cui seguì due anni dopo La vita in versi, che sviluppa una trama di immagini umili e quotidiane in un linguaggio che si avvicina alla prosa, non senza accenti di autoironia.

In Autobiologia del 1969 queste premesse si sviluppano in una sequenza di brevi racconti in versi, di matrice autobiografica, in cui il poeta-narratore confessa l’alternanza di stati d’animo contrastanti (dai segreti sensi di colpa alla «impiegatizia frustrazione» o al sogno ricorrente di una rinascita socialista), con cenni frequenti all’esperienza del corpo. Di particolare interesse sono la sezione intitolata La Bovary c’est moi (“la Bovary sono io”, che riprende la celebre affermazione di Flaubert) – ove la scena si “teatralizza” e il poeta si identifica nel personaggio di una donna borghese insoddisfatta e inquieta, consumata dall’ansia di un’evasione in un amore impossibile – e l’enigmatico componimento conclusivo, La Storia, che pare alludere alla preminenza del vissuto individuale sulle prospettive della lunga durata:

Lo spazio di ogni vita di uomo dura la storia – non
È vero che dura millenni.

Giovanni Giudici.

Giovanni Giudici.