Ascanio Celestini, La pecora nera (2005)
Ascanio Celestini si inserisce nei percorsi del teatro di narrazione dapprima con la trilogia Milleuno (1998-2000), in cui rivive l’ambiente delle periferie romane del dopoguerra, e in seguito con Scemo di guerra. 4 giugno 1944 (2000), che narra la giornata della Liberazione di Roma da parte degli alleati, con Fabbrica (2002) – storie di vita operaia – e con La pecora nera (2005), che parla dei manicomi. La sua attività prosegue con testi, come Pueblo del 2017, che guardano al vissuto quotidiano degli emarginati incontrati tra i bar, i supermercati e i marciapiedi delle grandi città. Nel complesso, questo teatro si caratterizza per la scomparsa del “personaggio” e per un ritorno all’essenza più antica del teatro, in cui l’attore è fondamentalmente un cantastorie (abile nell’affabulazione) e vengono meno tutti gli elementi superflui di contorno. Risalta la funzione civile della produzione teatrale, mentre non si esclude l’intervento di materiale multimediale – proiezione di immagini o video – con una finalità documentaria.
Il teatro di narrazione
Nel suo Manifesto per un nuovo teatro (1968), Pier Paolo Pasolini aveva auspicato lo sviluppo di un teatro di parola da contrapporre ai due generi che parevano fronteggiarsi sulla scena del teatro contemporaneo: da un lato il «teatro della Chiacchiera» (così definito da Moravia), ovvero quello tradizionale, accademico e borghese, e dall’altro il teatro “del Gesto e dell’Urlo”, contestatario, alternativo e underground, in cui il ruolo preminente era assegnato al corpo. Pasolini proponeva un teatro antiborghese, ma capace di riscoprire la propria dimensione politica nel recupero delle memorie collettive, in un’oralità affidata interamente alla parola, capace di rinunciare a ogni apparato naturalistico (scenografia, musica, trucco e costumi).