Sul testo

La vita di Giuseppe Baretti

Lettere familiari a’ suoi tre fratelli (1962)

Nelle Lettere familiari prevalgono, sulle orme del Berni che Baretti assumeva a pro­prio modello poetico, «il compiacimento per l’esercizio di stile inteso come fine a se stesso» e «la ciarla per la ciarla», mentre «le cose [...] sono volutamente deformate per suscitare il riso» (Fubini). Lo si percepisce nel brio con cui sono narrati certi bizzarri contrattempi di viaggio, o nella freschezza dei ritratti, o nella cura con cui si descrive il recente terremoto di Lisbona richiamando la descrizione virgiliana dell’incendio di Troia.

L’immediatezza di questi pezzi di bravura si associa talora all’umorismo ed esclude la retorica tradizionale, dando luogo alla geniale libertà espressiva che l’autore avrebbe di lì a poco auspicato – come critico – nei fascicoli della «Frusta letteraria», e che sarebbe infine tornato a rivendicare con il Discorso su Shakespeare e Voltaire del 1777.

Proprio nella modernità della prosa e negli accenti schiettamente autobiografici – assai più che nella documentazione fornita – consiste il pregio principale dell’opera, che per il critico Franco Fido costituirebbe l’autentico capolavoro barettiano.